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CineClandestino

PAOLO GIOLI. UN CINEMA DELL'IMPRONTA

30/12/2009

CSC e Kiwido, Roma 2009

 
“A me piacciono molto le cose laddove sono complicate, dove c’è una sfida. Ho fatto dei film togliendo l’otturatore dalla mia cinepresa e utilizzando degli otturatori esterni: ad esempio la mia stessa mano, oppure, come nel caso del lavoro su Marcel Duchamp, una ruota di bicicletta.” A parlare è Paolo Gioli, tra gli sperimentalisti italiani dell’avanguardia cinematografica degli anni sessanta, forse il nome più apparentemente indecifrabile, volutamente nascosto, sotterraneo al di là della stessa posa underground nei cui confini si aggira e aggirava per mostrare le proprie creature.
A intervistarlo Giacomo Daniele Fragapane. L’occasione? L’edizione del volume Paolo Gioli – Un cinema dell’impronta, apprezzabile sforzo condiviso dal Centro Sperimentale di Cinematografia e dalla Kiwido di Federico Carra. Un volume a suo modo indispensabile, anche e soprattutto di questi tempi: in un’Italia cinematografica che con sempre maggiore facilità sembra cader preda di un’estetica raffazzonata, basica quando non direttamente derivata da pratiche altre – la televisione, senza dubbio, ma non solo – lo scontro frontale con un’esperienza autoriale come quella portata avanti nel corso dei decenni con coerenza da Gioli non può che risultare deflagrante. Il volume, a cura di Sergio Toffetti e Annamaria Licciardello, si articola (al di là della succitata intervista, grazie alla quale riusciamo a cogliere, in filigrana, l’istinto poetico che guida la mano e lo sguardo del cineasta) attraverso una serie di interventi saggistici, volti a scandagliare l’universo artistico generato da Gioli: si passa così da un’interessante riflessione di David Bordwell sul tema della verticalità nelle opere del sessantasettenne maestro di Sarzano (sviluppo anomalo rispetto all’orizzontalità classica a cui ci ha abituato la storia del cinema), ad acute incursioni all’interno della sua filmografia attuate tanto da Jean-Michel Bouhours quanto da Bruno Di Marino. Questo per rimarcare, qualora ce ne fosse bisogno, il riconoscimento internazionale di cui ha sempre potuto godere Paolo Gioli: fra tutti gli avanguardisti italiani dell’epoca senza dubbio fu quello in grado di colpire con più forza l’immaginario dei critici e dei cinefili stranieri. E proprio sul panorama dell’avanguardia italiana si sofferma Annamaria Licciardello, conducendoci per mano in un percorso a tappe che prevede l’inserimento del nome di Gioli – il quale, dopo i primi studi, se n’era andato a vivere a New York – all’interno di un microcosmo, come quello dell’underground nostrano, che vede avvicendarsi nomi di granitica importanza quali quelli di Alberto Grifi e Piero Bargellini; artisti accomunabili a Gioli per la loro insopprimibile e pervicace volontà di scardinare l’ovvio, rielaborare le tecniche cinematografiche e rinnovarle, magari svilendole ma senza mai rinnegarne l’urgenza più strettamente “materiale”. La materia che si fa teoria, esattamente come insegnato da Gioli, regista e pittore (e su questo aspetto della sua carriera si sofferma Nico Stringa) che ha preso il cinema a modello per riscriverlo, senza freni inibitori, senza vincoli morali(sti) a condizionarlo. È anche grazie a questa indole che è possibile ammirare la riscrittura, estremizzata e mutata dal corso del tempo, del celebre taglio dell’occhio della donna in Un chien andalou di Luis Buñuel; ed è così, riallacciandoci alla citazione con cui aprivamo questo articolo, che l’arte di Duchamp può essere rivitalizzata, ricreata, rielaborata.
Un viaggio essenziale e imperdibile, condotto con acume teorico e sensibilità di scrittura, e corredato (è davvero il caso di dirlo) da una vasta e illuminante galleria fotografica, realmente in grado di materializzare di fronte al lettore le immagini su cui si è speculato fino a un attimo prima. Un percorso esaltante, a cui si aggiunge anche il doveroso dvd (di cui vi parleremo più approfonditamente nel corso dei prossimi gioni) che raccoglie sei lavori di Gioli. Un modo per avvicinarsi a un cinema senza dubbio ostico (“se voglio svagarmi non vado al cinema” è uno dei motti di Gioli), magmatico, catturante e respingente allo stesso tempo; dimostrazione di poetica fuori dagli schemi e dalle impercettibili usure del tempo. Un volume necessario, accurato in ogni minimo particolare (estremamente approfondita anche la parte dedicata alla filmografia del cineasta), forse il modo migliore per scoprire un universo cinematografico ricco eppure letteralmente sepolto dalla polvere contaminata della nostra contemporaneità.

Raffaele Meale