|
Alias - il manifesto
DI FRONTE ALLA SFINGE - CONVERSAZIONE CON ROBERTO NANNI
22/08/2009
Cinema italiano in rivolta DI FRONTE ALLA SFINGE di Rinaldo Censi I film di Roberto Nanni possiedono una qualità: ciò che mostrano non è una semplice immagine della realtà; piuttosto, si muovono senza tempo, innescando associazioni ardite, perturbando questa stessa realtà filmata, interrogandola, velandola, come se fosse una materia a più strati. Questa dimensione anacronistica, è ciò che rende i suoi film sempre attuali, fiammeggianti, imprendibili, anche. «Non è tanto l’immagine che conta, quanto ciò che si realizza a partire da essa e ciò che certe immagini producono come effetti su altre immagini. Può verificarsi che il fatto di aver visto la Sfinge modifichi il modo che si ha, per esempio, di guardare un uomo che passa per strada». Queste riflessioni di Francis Bacon, rilasciate a Michel Archimbaud, ben si addicono ai film che Roberto Nanni realizza. Come uscire dalla «rappresentazione» o dalla semplice certificazione di una realtà impressionata? Forse è necessario trovarsi, una volta nella vita, di fronte alla Sfinge. Le cose non saranno mai quelle di prima. Roberto Nanni è per noi un cineasta prezioso. L’occasione di questa conversazione è data dall’uscita di Ostinati 85/08 (Kiwido, 19 Euro) dvd + book che raccoglie parte della sua filmografia, pubblicato e voluto da Federico Carra. Con Roberto abbiamo parlato dei suoi film, di Francis Bacon, di omonimie, di Max Ophüls... e di molto altro. «Sono nato a Bologna, cresciuto nel quartiere San Donato. Non c’è un inizio, ce ne sono differenti: illuminare operazioni chirurgiche o lavorare alla produzione di Ghost Sonata di Tuxedomoon...» Ostinati 85/08 fa un po’ il punto su quella che possiamo chiamare la tua carriera. Puoi parlarmi del tuo agire come cineasta? Ostinati 85/08 rappresenta una selezione di soli sette film. Si occupano di realismo soggettivo e si sottraggono da ogni pretesa innovativa o d’avanguardia. Bisogna sempre vivere nel presente. Non mi occupo di cinema sperimentale, ripeto, mi occupo di realismo soggettivo. Mi svincolo dal cinema di «rappresentazione» o di «documentazione». Non sapendo come classificarmi, sono confinato nello «sperimentale». È anche vero che l’Italia è particolarmente ottusa in questo. Ho vissuto e lavorato per anni in differenti paesi e posso affermare che qui, in Italia e specialmente a Roma, sbatti la testa contro il muro. Qui hanno bisogno d’uniformi, di classificare in gruppi d’appartenenza o d’associazione, anche nel cinema. È una deriva fascistoide che include anche gli «indipendenti», i più ambi-gui, quelli con problemi di ruolo, quelli che fanno i registi. Quindi che fare? Attentare alle forme chiuse, a tutte, anche a quelle produttive. Non m’interessa catturare l’attenzione, conciliare o, orrore, consolare. Anche il cinema «indipendente» è afflitto da quest’afflato consolatorio. Non voglio rapire, catturare frammenti di realtà. Penso che il loro presunto possesso sia un problema di riproduzione illustrativa, una questione informatica atta ad occuparsi di un numero maggiore di bit o pixel, una corsa verso una riproduzione asettica e non interpretativa. La realtà m’interessa nella sua accezione interpretativa, nella sua dominante trasformazione. Quello che faccio è agire su questi frammenti. Ricorda Bacon: «Come vorrei riuscire ad afferrare anche un solo istante di questa realtà, con tutta la soggettività che quell'istante contiene, e chiuderlo in un quadro!» Realismo soggettivo: è una formula che mi sembra adatta per la mia pittura. Potrei anche citare quello che Van Gogh scriveva al fratello Théo: «Il mio più grande desiderio è imparare a cambiare e rifare la realtà. Vorrei che le mie tele fossero imprecise ed irregolari, che diventassero delle menzogne, madelle menzogne più vere della verità letterale». (Francis Bacon, Conversazione con Maïten Boisset, in Francis Bacon, Intorno alla pittura. Conversazioni, Genova, Graphos, 2000, p. 32.) Parliamo un po’ dei film che compongono il dvd. L’Amore Vincitore. Conversazione con Derek Jarman è ormai un classico, senza tempo. Puoi parlarmi del lavoro e del tuo incontro con Jarman? Goethe, con durezza, ammoniva Kleist. «Heinrich, sei proprio un gran testone. Se vuoi essere un autore maggiore, hai l’obbligo di vivere nel tuo tempo». Kleist, uscendo dal suo secolo ma non dal suo presente, diventò eterno, senza tempo. A Goethe non riuscì l’impresa, rimase invischiato nella rappresentazione della sua epoca. Insomma Heinrich inciampava, scivolava, era «fuori tempo», non si adeguava a rappresentare, ma diventò eterno. Il lavoro su Jarman è stato scritto e realizzato seguendo l’ostinazione di Kleist nel rifiutare i consigli di Goethe. Conobbi Derek Jarman nel 1982 o 1983, a Londra durante The Final Academy, era presente anche W.S. Burroughs. Entrambi nelle stesse ore stavano girando Pirate tapes. Ci si conosceva, avevamo molti amici in comune, come Tuxedomoon. L'incontro avvenuto nel 1993 a Roma durante la presentazione di Blue, fu il momento durante il quale realizzai L'Amore Vincitore. Conversazione con Derek Jarman. Ne L’Amore Vincitore il suo corpo diventa un paesaggio, un luogo da percorrere. L’Amore vincitore è anche un’esperienza auditiva... Sai, il suono per il mio lavoro è primario, e non mi riferisco al «buon suono». Monto la scena sul suono, l’opposto di come generalmente si agisce. L'importante non è avere un «buon suono», l’importante è un suono che agisce come un istigatore e che costringa a lavorare sulla scena in modo originale. Per me, un’idea cinematografica trae origine essenzialmente dal rapporto, dallo «scontro» tra visivo e sonoro. Citavi Bacon... questo mi fa pensare a Dolce vagare in sacri luoghi selvaggi, per me il tuo film più bello. È il verso iniziale di Tinian di Friedrich Hölderlin. Questo lavoro influenzò con potenza quello su Jarman. Posso affermare senza dubbio che fu fondamentale. È composto di frammenti esplosi, di dettagli delle masse muscolari di Mohammed Alì e Joe Frazier. Uno studio sul corpo in movimento, che, con molto lavoro, ha assunto una sua identità. Realizzai una truka artigianale per riuscire nell’intento. L’incontro con Gabriele Panico stimolò la sua conclusione, realizzando ed eseguendo una perfetta partitura. Attraverso un vetro sporco è invece un diario realizzato a Roma, città nella quale vivi da ormai quindici anni. Nel libro c’è un lucido intervento di Stefano Catucci, che con queste parole interpreta questo film. «Da quel momento la trasparenza della finestra diventa la soglia di compensazione fra lo sguardo e la città, un fuori che a tratti prende anche le sembianze della televisione, il nostro vetro quotidiano d’interposizione fra la vista e il mondo. Che vi sia sporco è un modo per denunciare le illusioni della trasparenza: come non può essere neutrale l’obiettivo, così non può esserlo neppure la vista, già sempre montaggio di frammenti che seguono la ricostruzione di un ordine, di una forma per principio non definitiva e revocabile. La proiezione verso un fuori che destabilizza è una costante nei film di Roberto Nanni: la parola documentario gli sta stretta se la pensiamo solo in termini di cronaca o di riproduzione, come per lo più avviene». Ho trascorso diversi anni a poche decine di metri dalla stazione Termini. È un lavoro iniziato nell’autunno ’98 e concluso l’estate dopo. Tra il mio sguardo e la strada, solamente le persiane di una finestra. Una quinta su fiumi urbani sui quali tutto scorre senza lasciare sedimenti. È un omaggio inconscio a Salò. Nel tuo percorso hai lavorato con mostri sacri. Oltre a Brown e Jarman, anche Fluxus, De Santis, Wiseman e Moretti... autori che hanno lavorato con supporti differenti. Tu sei nato con il super 8mm., qual è il tuo rapporto con i supporti, con gli strumenti? Fluxus, li ho conosciuti nel 1989 durante un lavoro realizzato insieme a Giuseppe Baresi e Studio Azzurro, con Fred Wiseman abbiamo condotto un seminario su cinema e follia a Trieste lo scorso novembre, un vero maestro. Mentre Moretti è stato il mio produttore per Antonio Ruju. Vita di un anarchico sardo. Per i supporti, non esiste alcun problema o questione a riguardo, in circa trent'anni ho lavorato con tutti i formati, dico tutti, pollice incluso. Quando ho iniziato a girare i primi super 8mm, avevo 16/17 anni e non c’era altro supporto. Nel 1976, era quello l’unico mezzo economico, poco costoso. Solo invertibile Kodakchrome. Mi piaceva moltissimo sotterrare le pellicole in vasi di fiori, sotto gli alberi, nei campi e nei giardini del quartiere, pellicole sia vergini che impressionate. Pellicole interrate per essere estratte al momento giusto come il vino buono, pellicole scadute, ricoperte di paste come quella per pulire le dentiere, oppure immerse per qualche tempo in liquidi anche fisiologici. Nel dvd è presente Steven Brown reads John Keats. Puoi parlarmi del tuo rapporto con lui e con Tuxedomoon. Conosco Steven e Tuxedomoon dal 1980. Li conobbi a Bologna e da allora sono tra le persone più care. Del 1983 è la prima collaborazione a Milano con Winston Tong, Opium. Nel 1989 a Bruxelles realizzai Greenhouse Effect. Steven Brown reads John Keats. È un lavoro di 90 minuti realizzato per i concerti di Steven. Nel dvd ho selezionato circa 24 minuti. Con loro ho diviso esperienze vere, anche estremamente dure, ma concrete. A proposito di anacronismi, Roberto, tu appari per la prima volta in La signora di tutti, un bellissimo film di Max Ophüls del 1934. «Di tutti s’ignora». Sono anche attaccante argentino del Velez Sarsfield, montatore per le emittenti del primo ministro... di tutti s’ignora, è proprio così. Ophüls è stato veramente un grande regista. Lola Montez è uno dei miei film preferiti. Già ci frequentavamo.
|