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IL FUTURO E' UN MITRA: IL PASSATO E' IL MIO BASTONE
11/09/2008
Surreali, corrosivi, indipendenti, geniali: Antonio Rezza e Flavia Mastrella sono la coppia più off che il cinema italiano abbia conosciuto negli ultimi anni. Li abbiamo incontrati a Venezia dove presentavano il loro ultimo documento "Il passato è il mio bastone" nell'ambito delle Giornate degli Autori. Un incontro con Rezza e Mastrella equivale ad entrare per un attimo in un mondo dove tutto è sottosopra (storto, proprio come le inquadrature dei loro corti) e in questa posizione, nonché invasi da quell'ironia che è solo loro e di nessun altro, riflettere sul cinema italiano diventa un'esperienza che non si dimentica. In "Il passato è il mio bastone" anche i critici cinematografici sono posti in posizioni di precarietà. Lontani dalle redazioni, li ascoltiamo dissertare su estetica e contenuti del cinema anni 90 di Rezza e Mastrella, con vistoso imbarazzo di essere per una volta davanti alla macchina da presa. In questo documento avete voluto rendere i critici cinematografici protagonisti di un video. Com'è nata quest'idea? A.R.: "Il passato è il mio bastone" nasce come extra del dvd "Ottimismo democratico" che sarà distribuito dalla Kiwido a Novembre e che raccoglie tutti i nostri corti in bianco e nero, dal 90 al 99. Poi è diventato un documento a sé. È più di un extra: è proprio un'indagine sul nostro inconscio. Un documento analitico di grande divertimento perché è mescolato, oltre che alle impressioni di alcuni tra i più importanti critici italiani, all'immagine dei fuori onda di quello che facevamo noi mentre giravamo dieci anni fa. Quindi è una cosa che si è creata facendola... A.R.: Beh no, abbiamo lavorato molto per farla. Purtroppo si è creata perché ci abbiamo lavorato... Il vostro connubio artistico dura da tanti anni. Siete una coppia che ormai ha del mitologico, pur essendo più che viventi, e questo documento si riferisce al vostro passato. Come mai avete voluto fermare il passato piuttosto che pensare al presente? F.M.: Veramente all'inizio non lo volevamo fare, facevamo resistenza. Però serviva un extra per il dvd e quindi ci siamo trovati costretti ad esaminare le immagini del passato. Soprattutto Antonio, perché io non ce l'ho fatta... Mi sono occupata di tutto il reparto fotografico perché mi sconvolge troppo vedermi all'opera e vederci così giovani e così pieni di energia già da allora. Così feroci! A proposito del passato, voi siete già stati a Venezia nel '96 con "Escoriandoli". Che effetto fa tornare dopo tanto tempo e quali sono le differenze? Considerato che nel frattempo avete accumulato anche un certo vissuto... A.R.: Per noi venire a Venezia è sempre un miracolo perché siamo completamente sprotetti. A me piace venire per far vedere, perché siamo consapevoli che quello che facciamo non esiste, non c'è. Quindi ci fa piacere che venga visto per emozionarci noi insieme a chi lo vede. Quello che mi dispiace di Venezia è questa mistificazione, questa appropriazione indebita di divismo. Questi falsi divi che spogliano un evento come questo del fenomeno che lo rendeva irripetibile, cioè il vero divismo. Oggi mancano i veri divi. Il divo è come la madonna: quando c'è, è per tutti. E poi sparisce. Noi quando finiamo di esser divi spariamo. Ma spariamo nel senso di sparire e nel senso di sparare. Quindi bisognerebbe sparire, e sparare di più. Venire qui, in questo clima, e portare sullo schermo la critica cinematografica, verrebbe da pensarla un po' come una provocazione... A.R.: No, non è una provocazione perché i critici che abbiamo intervistato sono quelli che ci hanno aiutato negli anni, dal 90 ad oggi, quindi è anche un omaggio affettuoso verso chi ha analizzato il nostro cinema. Grazie a questi critici noi siamo esistiti, anche se il sistema statale e produttivo cerca ancora oggi di non farci esistere. Abbiamo voluto portare i critici fuori dal loro contesto spaziale e lavorativo, intervistarli per strada, sul lungotevere, durante la discesa di una scala. Significa anche fare un documento di analisi diversa esteticamente. Come al solito noi portiamo qualcosa che non c'è. Finché ci siamo noi ci sarà sempre qualcosa che non c'è... F.M.: Tra l'altro i critici parlando del nostro lavoro colgono l'occasione per dare la loro opinione sulla situazione generale. La nostra non è un'operazione goliardica, è un'operazione che va in profondità sia di noi stessi sia di loro che ci hanno portato avanti. Averceli sempre a portata di mano in questi anni è stato importante per la crescita, anche se noi non facciamo più un film da sei anni. Ci siamo rifiutati. Dopo "Delitto sul Po" non portiamo a termine, facciamo solo non finiti. In questo festival si è parlato molto di low budget, perché i film italiani visti (tolte le grandi produzioni Medusa e Rai in concorso) sono contraddistinti proprio da questo. Per voi che posto c'è nella cinematografia italiana di oggi? Sia dal vostro punto di vista che come percezione di quello che si vorrebbe da voi. Perché voi avete un pubblico straordinario... F.M.: Non c'è prospettiva. Non credo che facciamo parte del cinema italiano e non ne faremo mai parte. Perché per prima cosa ci serviamo di più forme comunicative: una volta si fa un film, una volta uno spettacolo, una volta Antonio fa un libro o io faccio un allestimento fotografico. Loro parlano di basso budget, ma noi stiamo più bassi del basso budget. Sappiamo però che in realtà c'è un nuovo progetto cinematografico che vi riguarda. A.R.: Due progetti cinematografici. Uno è "Samp", che dal 2001 è proseguito con le riprese nel 2002 e verrà montato adesso. Poi ce n'è un altro che sto girando da solo, perché Flavia non ha voluto analizzare la figura di Cristo, ma io l'ho fatto come desiderio personale e sarà pronto quando avrò tempo per finirlo. E poi abbiamo un film epocale che è "Petardo a luce rossa" per il quale fortunatamente non riusciamo a trovare sovvenzioni. F.M.: "Samp" è un film on the road. Girato per la strada, abbiamo preso al volo i set e da una storia di tre righe abbiamo imbastito una storia complicatissima. Uscivamo vestiti in costume e ci fermavamo dove sentivamo l'ispirazione. È stato molto bello. Se avete scelto il bastone come simbologia del passato, che tipo di oggetto scegliereste per pensare al futuro? Se il passato è un bastone, il futuro che cos'è? F.M.: Un mitra. Carico. Chi lo tiene il mitra? F.M.: Io. Ma penso pure Antonio, facciamo un po' per uno. A.R.: Effettivamente penso che sarebbe l'unica possibilità. Sono contrario a qualunque forma di violenza, però penso che vedrei morte volentieri parecchie persone. Chi infastidisce la cultura, chi mistifica, io vorrei veramente vederlo morto. Purtroppo questo non è sempre possibile, moriranno ma moriranno da sé. E quando moriranno sarà sempre troppo tardi... Nel vostro documento, Paolo D'Agostini de "la Repubblica" dice di voi: "Questo è un caso di indipendenza letterale assoluta". È vero? E cosa comporta? A.R.: Certo che è vero. Ciò che comporta non è un problema nostro. Chiaramente comporta una visibilità relativamente minore e che sei teoricamente libero di fare quello che vuoi, da quando apri gli occhi a quando li chiuderai. Quindi non c'è nessun problema. Noi non lavoriamo per "adesso", lavoriamo per "dopo". Noi siamo dei calcolatori, lavoriamo per quando non ci saremo più. Creiamo lavoro a chi sarà costretto ad analizzare la nostra opera dopo. Altrimenti saremmo degli sconfitti. La vita di un uomo dura molto meno della vita di un morto.
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