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Rapporto Confidenziale

REZZAMASTRELLA: INTERVISTA A CORPO MORTO

01/07/2011



Il presente articolo è stato pubblicato su Rapporto Confidenziale numero33 (giugno 2011), pagg. 14-20

REZZAMASTRELLA
Intervista a corpo morto

di Alessio Galbiati

Trenta gradi in città. Domenica ore 14. Una piazza di Milano. Anonimamente bella. Ristorante cinese. Addosso i postumi di una notte malamente insonne, il dubbio fino all’ultimo di dare forfait. Forze incerte, meglio, improbabili. Trenta gradi in città.
Antonio e Flavia pranzano ad una lunga tavola insieme al piccolo sciame che li segue. Un saluto. Noi ci siamo già visti? Io ti ho visto varie volte, ma non credo tu mi abbia notato. Un’acqua naturale. Da mangiare? Niente. Trenta gradi in città.
Antonio porta dei lunghi baffi, camicia nera aperta, petto in evidenza, è magro e muscoloso: pare in forma smagliante. Flavia è scompigliata, maglione maniche lunghe, cerca di calmare Antonio che al telefono non vorrebbe fare lo spettacolo della sera. Se non ci sono le luci, niente spettacolo.
Il resto della tavola è estremamente cordiale con me, conciato come uno straccio, pallido e affannato.
Vorrei domandare del “Cristo morto”, ma non vorrei sbattere contro un muro. Senz’altro di “Delitto sul Po”, dello stile del loro cinema. Usare la parola cinema potrebbe essere un altro muro.
Quello che fate con le telecamere. Sorridono.


 

Alessio Galbiati: Partirei dal progetto “Troppolitani” che proprio in questi giorni vi vede impegnati qui a Milano con le riprese di nuovo materiale. Vorrei sapere, tanto per cominciare, dove lo si potrà vedere.

Flavia Mastrella: È una bella domanda perché nemmeno noi lo sappiamo. Lo si potrà vedere alla conclusione, o come introduzione, di qualche nostro spettacolo teatrale… oppure lo invieremo a qualche concorso… non lo sappiamo ancora. Antonio ha progetti più ambiziosi per questa nuova serie di “Troppolitani”.

Antonio Rezza: Non sono progetti ambiziosi, vorremmo proporre la nuova serie alla televisione, ma non è detto che l’accolgano. Noi intanto giriamo del nuovo materiale, anche se, come di questi tempi, non troviamo nemmeno il tempo di montarlo… quando il materiale sarà finito, e troveremo il modo di montarlo, solo allora ci porremo il problema di dove mostrarlo.

AG: Come mai siete così affezionati al linguaggio di “Troppolitani”, cosa c’è in quel modo di stare in mezzo alle persone che vi attrae così tanto?

FM: È molto utile perché non si perde di vista la crescita della popolazione. Abbiamo visto che è tutto molto più drammatico rispetto a dieci anni fa. La gente è più aggressiva, sono tutti più esasperati… sono meno puri.

AG: E la reazione davanti alla telecamera? Com’è cambiata?

FM: Sono più abituati.

AR: Quello che è successo negli ultimi dieci anni a livello televisivo ha cambiato soprattutto la spontaneità, è stato uno sterminio, lo sterminio della naturalezza. Ognuno vuole apparire perché sa che c’è la possibilità che poi vada in televisione. Tutto questo è successo in pochissimo tempo.

FM: Sanno di essere manipolati e sanno che avranno una visibilità. I primi erano più ingenui.

AR: Fare “Troppolitani” non è divertente, ed è molto faticoso. Solo il set , forse, è più faticoso. Qui camminiamo tanto mai poi… Non è facile l’approccio… però lo facciamo… perché, anche se questa spontaneità è venuta meno, è sempre interessante avere a che fare con contesti diversi. Qui ci sono in prevalenza gli immigrati (si riferisce alle riprese che nei giorni dell’intervista hanno realizzato in viale Padova a Milano, circa venti ore di girato in due giorni di permanenza in città; ndr), l’anno scorso c’erano i dissociati mentali (si riferisce alle riprese effettuate il 22 maggio in Piazza Mercanti, a Milano, in occasione di “Fuori Dove”, evento culturale che raccoglie utenti, familiari, associazioni e artisti attorno alla questione del disagio psichico; ndr)… scegliamo temi diversi perché vi sia ancora spazio per lo stupore.

FM: “Troppolitani” ha sempre la solita struttura: sono derive dentro la città, sia essa Milano, Napoli o Roma.

AG: “Troppolitani”, il titolo, cosa significa?

AR: La parola è un misto tra la metropoli e coloro che la abitano… quelli che abitano la metropoli…

 

FM: …troppo intensamente.

 

AG: Il programma nasceva nel 1999 sul terzo canale Rai diretto Angelo Guglielmi (1987-1994. Un’epoca gloriosa del servizio pubblico, sia in termini di innovazione del linguaggio che di palcoscenico per una generazione di talenti; ndr), avete mai più avuto contatti con la RaiTre attuale diretta da Paolo Ruffini, figlio di Cardinale ? (Paolo Ruffini, Palermo 4 ottobre 1956, è un giornalista italiano. Figlio del politico Attilio Ruffini e nipote del cardinale Ernesto Ruffini e del politico Enrico La Loggia; ndr)

FM: No mai!

AG: Figlio di Cardinale non è male…

AR: Quasi figlio, figlio del figlio. Io so che è nipote… ma non è quello che conta… tutti noi siamo nipoti, ognuno è nipote. Da quando è cambiata RaiTre per noi gli spazi si sono giustamente chiusi; per noi sarebbe assurdo stare li. È giusto che noi non ci siamo.

AG: Vi faccio questa domanda perché qualche tempo fa sono stato alla presentazione della raccolta video che la Cineteca di Bologna ha realizzato sull’esperienza di Cinico TV (“Cinico TV 1989-1992, Volume primo”, DVD-Booklet Edizioni Cineteca di Bologna, 2011; ndr). In quella sede Franco Maresco diceva, non senza risentimento, di come in questi anni non gli fosse mai capitato di essere ricontattato da RaiTre… Cadono le braccia di fronte ad una cosa del genere…

AR: Quello che hanno fatto nei loro confronti è gravissimo, portare due persone come loro a dividersi è un delitto… non sappiamo i reali motivi della separazione…

FM: Ma possiamo provare ad immaginarli… è la difficoltà che ti porta a questo.

AR: Che noi non andiamo in televisione, che Ciprì e Maresco non vadano in televisione, non è un danno a noi, non è un qualcosa che danneggi noi. Noi e loro facciamo sempre, lo si spera, quello che vogliamo. Il danno è per chi non può vedere cose migliori e più libere di altre.

AG: Penso che il linguaggio televisivo sia un qualcosa che vi interessi, anche solo come contenitore, per la possibilità di irrompere nelle case di milioni di persone…

FM. È però necessario che quel contenitore sia giusto. Credo che oramai la televisione non sia più un contenitore giusto, ormai è esclusivamente, e come sempre, orrenda. Io non la vedo da due anni.

AR: Per me, ed in questo io e Flavia la vediamo in maniera diversa, più il contenitore è sbagliato e più è giusto esserci. Quel pubblico non arriverà mai a vederti in teatro e più le trasmissioni fanno schifo, più è giusto stare in quello schifo. Non bisogna avere paura dello schifo.

AG: Come nasce la collaborazione con la Kiwido di Federico Carra, ovvero come è nata l’idea di pubblicare la raccolta antologica “Ottimismo democratico”? (un’intervista a Federico Carra la potete trovare su RC21, gennaio 2010, pp.7-12, ed al seguente indirizzo: www.rapportoconfidenziale.org/?p=5307; ndr)

FM: Conosciamo Federico da molti anni, ha fatto l’attore in svariati nostri lavori…

AG: Ed ha realizzato le musiche di “Delitto sul Po”, che mi ossessionano da anni…

FM: Federico ha sempre ottime idee.

AG: Questa collaborazione nasce dall’esigenza di pubblicare i vostri cortometraggi in dvd, accompagnati da un extra che poi è diventato il documentario “Il passato è il mio bastone”.

AR: Il tutto nasceva da un progetto vecchio. Ogni volta che ci incontravamo ad agosto… che è un mese di sospensione, come la domenica, un periodo in cui nessuno fa niente… parlavamo di questo progetto solo ad agosto e poi, puntualmente, non lo facevamo.

FM: Quando ha aperto una casa di produzione di dvd, la Kiwido, ha subito pensato a noi… successivamente ha pubblicato altri lavori molto interessanti.

AG: In questi altri lavori voi comparite sparsi negli extra (“Ostinati 85/08” antologia Roberto Nanni e “Un cinema dell’impronta” antologia Paolo Gioli, www.kiwido.it; ndr)…

AR: Sì. Ci siamo in quello dedicato a Roberto Nanni, e pure in quello di Paolo Gioli…

AG: Questi altri autori del catalogo Kiwido senz’altro vi piacciono…

FM: Federico è molto coraggioso.

AR: Roberto Nanni fa delle cose bellissime, Paolo Gioli pure.

AG: Avete avuto un ruolo nella selezione di questi autori?

AR: Con Nanni abbiamo semplicemente messo in contatto i due, ma la scelta l’ha fatta Federico.

FM: È lui che è feroce nelle scelte.

AG: Procedo in ordine sparso… Voi per caso conoscete i film Augusto Tretti (al regista veronese classe 1924 Rapporto Confidenziale ha dedicato uno speciale monografico, “Augusto Tretti o dell’anarchica innocenza di un irregolare del cinema italiano”, liberamente consultabile e scaricabile al seguente indirizzo: www.rapportoconfidenziale.org/?p=11383; ndr) ?

AR: No, ce ne hanno parlato ma non li abbiamo mai visti.

FM: È grave?!

AG: Un po’ sì.

FM: E allora fateceli avere

AG: Provvederemo… che siamo certi, da tempo, vi piaceranno.

AR: Ma è vivente Tretti?

AG: È vivente, ha la sua bella età ed è vivo e lotta insieme a noi. Ha passato gli ottantacinque, vive appartato nella casa di famiglia sul lago di Garda, ha realizzato in tutta la sua carriera sostanzialmente solo tre film, tutti decisamente innovativi, surreali e folli; incontrò enormi problemi nella produzione, pur se amato dai grandi del cinema italiano… la sua è una storia esemplare del coraggio della produzione in Italia.

AR: I grandi del cinema italiano che, come tutti i grandi, non facevano niente per dar spazio a quelli che grandi lo sono davvero.

AG: Facevano delle gran lettere di raccomandazione a funzionari e produttori, e questi erano Fellini, Antonioni, Tonino Guerra…

AR: Facevano delle lettere, quando avrebbero potuto produrre. Quella che è sempre mancata è la solidarietà fra gli artisti. Se c’è qualcuno che viene ritenuto superiore va, andrebbe, sostenuto anche da chi superiore non lo è. Questa solidarietà non esiste. Parlar bene di una persona, o scrivere una lettera… non ci vuole molto, ma aiutarla concretamente è un altro discorso.

AG: Ultimamente sono usciti due documentari all’interno dei quali comparite come ospiti. Mi riferisco al documentario dedicato a Morando Morandini ed a quello di Elisabetta Sgarbi (“Morando Morandini, non sono che un critico” di Tonino Curagi e Anna Gorio, 2009 – “Se hai una montagna di neve, tienila all’ombra” di Elisabetta Sgarbi, 2010; ndr)…

AR: Quello di Morandini non l’abbiamo ancora visto.

FM: Abbiamo solamente visto il trailer su internet.

AG: Ma come nasce?

AR: Mah… era un documentario su Morando, eravamo a Bellaria e ci hanno intervistati…

FM: È stato tutto casuale. Stavamo lì proprio mentre facevano il documentario e ci hanno inseriti così… non credo che ci abbiano pensato parecchio prima. Ci hanno trovato.

AG: Però lui c’è nel vostro “Il passato è il mio bastone”.

FM: Morando è un grande. Anche perché per molti anni ha curato la formazione dei giovani cineasti italiani e faceva dei festival dove si andava a studiare, e si imparava tantissimo.

AG: Ora mi butto a bomba (come direbbe Valpreda; ndr) sui vostri lunghi…
Nel 1996 esordite con il lungometraggio “EsCoriandoli, prodotto da Galliano Juso, rocambolesca figura del cinema italiano, che un anno prima fece esordire Daniele Ciprì e Franco Maresco con “Lo zio di Brooklyn”.
Com’è stata quell’esperienza che letta a distanza di parecchi anni risulta anomala rispetto al vostro percorso artistico. Com’è stato il set, e la coabitazioni con attrici come Golino, Gerini, Ferrari e Cervi? Avete lavorato su di una sceneggiatura tradizionale?

AR: Sì, la sceneggiatura c’era perché i produttori la vogliono, non è che uno ti da i soldi se tu non hai una sceneggiatura. Una sceneggiatura serve a calmare il produttore. Lui ci ha proposto le attici, e dato che non siamo razzisti, abbiamo lavorato anche con le attrici, non è stato un problema lavorare con loro.

AG: Non avete altre esperienze con attori, tantomeno così tanti?

 

AR: No non abbiamo altre esperienze con attori, al cinema non mi sembra.

 

AG: Quello era il risultato che, per inciso, ho amato tantissimo, però poi quella forma non ha avuto un seguito…

FM: No perché ci sono stati problemi durante le riprese. A parte il fatto che noi sopportiamo male la realtà gerarchica… ed il set in questo è di un’antipatia atroce. C’è stato uno scontro fra noi, che concepiamo unicamente una libertà totale, anche di ripresa, e questa rigida struttura. In aggiunta alla sceneggiatura abbiamo affrontato “EsCoriandoli” anche con uno storyboard perché avevamo capito che il metodo era completamente diverso. Ci siamo costruiti dei punti fissi e con questi siamo riusciti a portare dalla nostra parte trenta persone ed a farle lavorare intensamente. Però ci è costato veramente tanta fatica. Quando lavoriamo in video, invece, riusciamo a cambiare sceneggiatura durante le riprese, ma in quel contesto era impossibile perché c’era da muovere una macchina estremamente complicata e pesante.

AG: Si parlava dunque d’un contesto in cui il direttore della fotografia era stato imposto dalla produzione…

AR: No, non si è trattato di imposizioni… noi abbiamo scelto tutto. Le attrici le ha scelte Juso, ma noi non abbiamo subito questa scelta.

FM: Il direttore della fotografia era sempre d’accordo con la produzione. Cercavano di raddrizzare le inquadrature… bisognava stare attenti perché facevano di queste cose…

AR: Però ci hanno anche fatto fare delle cose assurde. In un dialogo fra due persone non facevamo tutte le inquadrature di campo e poi di controcampo. Si sono adattati al nostro modo di fare.
Per noi è inconcepibile che se io e te stiamo parlando, prima facciamo tutte le tue e poi tutte le mie. Inconcepibile, non perché non crediamo alla capacità dell’attore, ma inconcepibile perché siamo noi che vogliamo vedere cosa succede. Se parla sempre uno e poi sempre l’altro, non capiamo quello che succede.

FM: E poi cresce meglio il film, perché gli attori entrano progressivamente nel meccanismo così com’è… se invece fanno dieci primi piani, e poi questi li sparpagli dentro al film, avrai una faccia iniziale dentro ad una parte finale. E così, non ci piace per niente…

AG: Poi, pochi anni dopo, nel 2001, vi spostate su “Delitto sul Po”… facendo esplodere e saltare in aria tutto. Come avete mantenuto il controllo in un’opera del genere? Come la trama è stata in grado di svilupparsi?

FM: “Delitto sul Po” era la frantumazione del controllo. Non c’è controllo. È un film girato la cui struttura narrativa è stata creata al montaggio. Avevamo una serie di immagini, l’abbiamo composto come un collage, però video.

AR: È un film montato dai personaggi. Noi giravamo le scene della questura a casa mia, ed ancora vestiti da personaggi facevamo il montaggio della scene appena girate, è un film che sfugge al controllo degli autori perché lo montano i personaggi. Visto che pensiamo che l’autore sia il gerarca ed il male dell’opera, il primo nemico dell’opera, era bello montare con ancora i vestiti del commissario addosso in modo che quando ci accorgevamo che mancava qualche immagine abbandonavamo il montaggio ed andavamo nelle altre stanze a girare. Questo lo puoi fare se non hai committenti, altrimenti è impossibile. Penso che nessun personaggio abbia mai montato un film.

AG: “Delitto sul Po” nasce come ipotetico format televisivo della durata di trenta secondi, ma poi trovate la produzione della Pablo Film di Gianluca Arcopinto…

AR: Non è una produzione. Arcopinto è arrivato alla fine. Ha semplicemente pagato le spese di post-produzione. Poi c’è stata la Fandango che ce l’ha accolto senza visto censura, e poi ce l’ha sospeso perché non aveva il visto censura. Una porcata che ci ha fatto perdere le prime visioni nelle varie città e che ha portato noi a non voler più fare uscire i film… li giriamo soltanto.

AG: Tempo fa, alla Cineteca di Milano, avevate fatto un discorso molto interessante… avevate affermato che il vostro teatro potrà durare fino a che il corpo, di Antonio, potrà sopportare i ritmi a cui lo sottoponete…

AR: Infatti c’è tempo!

AG: …«quando il corpo non ce la farà più ci daremo al cinema». «Il cinema noi lo stiamo facendo» e poi avete aggiunto, una frase geniale, «poi li faremo uscire tutti insieme, non uno alla volta ma tutti insieme quelli a cui abbiamo lavorato in questi anni».

AR: Ed in una sola sala! Per non dare tempo a chi vuole vederli di vederli tutti.

AG: È una provocazione o cosa? Ma soprattutto, quanti sono i film già pronti?

AR: No, è una provocazione, quando li finiremo li faremo uscire. Ad oggi ci sono due film sostanzialmente conclusi: “Samp” ed “Ipotesi di un film di Cristo morto”. Poi c’è “Petardo” che al momento è solamente una sceneggiatura, ma questo è un progetto che necessita di una produzione, perché la sua realizzazione è piuttosto costosa. Gli altri entro uno-due anni li finiremo. Quest’anno si era creata l’opportunità di mostrarli al al Festival del cinema di Venezia, ma non avevamo tempo e ci abbiamo rinunciato. Dovevamo consegnarli per metà maggio, però non ce la facciamo, e perdiamo l’occasione.

AG: “Cristo morto” è un progetto portato avanti individualmente da Antonio…

FM: Io non credo in Dio e detesto Cristo.

AR: Nemmeno io credo in Dio… ma non detesto Cristo, perché non credo abbia avuto tutto questo peso per essere detestato. Non posso detestare qualcosa che è stata messa lì senza sue colpe. Cosa detesti?! Un uomo strumentalizzato?! Non è colpa sua.

AG: “Ipotesi di un film su Cristo morto (Progetto di un film da realizzare)”, è ancora una provocazione ed il film è già realizzato?

AR: No, mancano venti minuti. Andiamo a minuti, non c’è niente da raccontare… quando un film dura ottanta-novanta minuti è fatto. È inutile che crei una storia. Come i libri… per esempio io scrivo un libro, so che devo scrivere 130 pagine e non mi preoccupo della storia, quando arrivo a 130 pagine, è fatto. Sarebbe tristissimo scrivere una storia. Anche uno spettacolo lo facciamo con lo stesso criterio, a minuti. Uno spettacolo deve durare ottanta-novanta, quando hai un’ora durante le prove sai che quella durata verrà dilatata dal pubblico ad un’ora e dieci, sei a settanta, ci aggiungi dieci, e l’opera è fatta.

AG: Concludo con un’ultima domanda, democraticamente per Flavia… democrazia che a quanto ne so non ami particolarmente…

AR: Dipende (ride; ndr).

AG: C’è un passaggio, fra i molti, nello spettacolo “7-14-21-28” che mi manda completamente fuori di testa, ed è il loop sonoro “Eh Marescià!” che Antonio aziona premendo il piede su di una strana pedaliera. So che nasce da “Autopatia”, un tuo spettacolo-installazione del 1995. Da dove viene fuori?

FM: È un pezzo di un film del quale non mi ricordo il titolo. L’abbiamo fatto insieme a Federico Carra, i suoni li ha trovati lui che è un ricercatore attento… Li ha selezionati all’interno della logica di “Autopatia” che è una malattia che si matura nel traffico; ci sono persone che subiscono aggressività ed altre che la producono, ed io rappresento questi stati d’animo. Lui doveva trovarmi dei suoni che risvegliassero una fantasia già esistente, ad esempio traendoli da film, suoni che amplificassero questa sensazione… e così li ho messi in questi apparecchi.
Poi capitò che nella realizzazione di “7-14-21-28”, uno spettacolo teatrale dedicato al ritmo e costellato di molti strumenti che Antonio si trova a suonare, quel suono poteva starci ed abbiamo pensato di inserirlo nello spettacolo.
I miei habitat si frantumano e vanno in giro, anche da soli, anche isolati come singoli elementi da tutto il resto.

AG: A questo punto, visto che il tempo stringe, chiudiamo qui…

AR: Se hai dei rimpianti…

AG: In realtà questa è solo la prima parte di un’intervista che durerà un decennio…

FM: Ottimo, noi amiamo queste cose.

AR: Allora va bene.

Antonio e Flavia, conclusa la conversazione, si spostano ad un altro tavolo per registrare nuovo materiale con una signora sui sessanta. Un donnone d’altri tempi. Li osservo senza afferrare le parole. Flavia si muove attorno al tavolo, telecamera fra le mani, Antonio con l’avambraccio, sul quale ha legato un microfono, inchioda il donnone in un labirinto di domande.
Nel giro di pochi minuti siamo in strada. Trenta gradi in città.
Da una laterale lo sciame converge in via Padova: due telecamere, un fonico, foto di scena. Antonio saltella fra le persone. Flavia segue ed anticipa. Guarda quelli! Scivoliamo nel parco Trotter in festa di quartiere.
Mi siedo. Li osservo da lontano. Danzano. Lo sciame diviene protesi di una macchina automatica fondata sulla visionarietà della parola di Antonio. Le persone intervistate si posizionano davanti alla telecamera senza che nessuno lo chieda. Come ti vedi fra vent’anni? Il bimbo vorrebbe figli, ma non necessariamente sposandosi. Due donne latinos inneggiano a Dio.
AntonioFlavia danzano istintivamente, spontaneamente anarchici. La prossima volta vorrei domandare dell’esigenza della loro indipendenza. Le cause di un metodo artistico, produttivo. L’essenza di un linguaggio che fugge il già visto, che cerca vie traverse, ancora inesplorate.
Trenta gradi all’ombra. AntonioFlavia non si fermeranno mai, al parco Trotter come nella loro artevita.

 

- Alessio Galbiati
Milano, 22 maggio 2011