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Liberazione

DISTRUGGIAMO SCHEMI ETICHETTE E CORRENTI. SONO UTILI SOLO AL SISTEMA

04/11/2009

Un anarchico contro tutti? Forse, ma la verità è che nel mio lavoro cerco di unire totale libertà e grande rigore

di Boris Sollazzo

Un regista irrituale, una cinematografia imprendibile. Roberto Nanni, genio gentile, è questo. E con lui non poteva che nascere una chiacchierata diversa. Chi scrive ha amato Roberto Nanni in una retrospettiva del Festival di Pesaro (a proposito, oggi dalle 17.30 fino a sera non prendete impegni: al Cinema Trevi di Roma, grazie all’opera preziosa della Cineteca Nazionale, e in particolare di Annamaria Licciardello, ci sarà una scorpacciata delle sue opere più belle e coraggiose, con tanto di dibattito critico con Catucci, Di Marino e Silvestri). Poi lo ha ritrovato e riscoperto, con più maturità, nel bellissimo libro+dvd Ostinati 85/09 edito da quella Kiwido di Federico Carra a cui si deve l’incosciente e visionario merito di aver diffuso in dvd anche Ottimismo Democratico della coppia Rezza-Mastrella e Un cinema dell’impronta di Paolo Gioli. Dvd stupendo: a un’opera quasi omnia di Nanni- non lo sarà mai, nella sua casa-museo ci sono almeno 40 ore raramente diffuse, viste, purtroppo- si unisce l’Autoscatto di critici e colleghi e l’Autosfratto, speciale e bellissimo, con l’anima affine dell’amico Roberto “Freak” Antoni. Lo chiamo da un letto d’ospedale, un’auto mi ha fracassato tibia e perone, ho appena rivisto L’amore vincitore. Conversazione con Derek Jarman, profonda nei contenuti atipici e distorta nelle immagini. Tutto sotto antidolorifici. Esperienza lisergica. Gliela racconto, ride, con tutta l’umanità della sua arte e si preoccupa del mio stato di salute. Ostinato io a voler parlare con lui, geloso di quel suo cinema che mi ha subito conquistato, ostinato lui nell’affrontare con me quest’avventura.

Roberto, questo suo cinema fa pensare a una biografia movimentata. Di cui si dice, e dici, sempre pochissimo.
Il lavoro è contaminato dalla vita, è sempre inevitabilmente autobiografico. Nasco a Bologna, il 29 febbraio 1960 (questa data di nascita bisestile, rarissima e difficilmente ripetibile dice molto di lui ndr), nel Quartiere San Donato, in periferia. La mia passione per il cinema si lega a quello per la musica, da Stooges, Reed, Bowie a John Cale, una formazione tutta primi anni ’70 che esulava dalla disco o dai cantautori italiani che allora imperversavano. La musica, allora, era molto stimolante (si pensi anche al punk sicuramente presente nelle sue ispirazioni e all’amico e sodale Steven Brown). Ricordo che da un’intervista a Lou Reed nel ’74 scoprii Burroughs e fui stimolato alla lettura da adolescente, quattordicenne, de Il biglietto che è esploso. Non nego che cinema e musica erano, e sono per me vasi comunicanti. Il cinema è tutto. E’ pittura, è forma d’espressione, è immagine in movimento, dobbiamo essere continuamente curiosi delle altre forme d’espressione, dalla poesia alla fotografia, non rimanere ancorati a una sola prospettiva espressiva.

E l’inizio porta subito a una sperimentazione totale. Su mezzi, contenuti, visioni e suoni
Iniziai a 16 anni con pellicole 2x8 mm, anche scadute. Interrate in vasi di fiori o sepolte nei cortili, o immerse nell’urina, sia vergini che impressionate. Non volevo essere fedele all’uso e alla consuetudine dello strumento, volevo amplificare gli errori, lavorare negli interstizi dei cosidetti “sbagli”. Poi sono venuti gli anni in Gran Bretagna, Germania, Belgio dove ho lavorato molto anche con le classiche metologie cinematografiche e video. Ho lavorato con tutti i sistemi e supporti, non mi formalizzo.

Alla faccia della tanto decantata sacralità della pellicola. Insofferente alle convenzioni?
Voglio uscire dalle gabbie, dai percorsi obbligati, uno è un cineasta punto e basta. Io sono per distruggere tutti gli schemi, etichette e correnti. Queste alimentano un sistema di controllo. Burroughs, Bacon, Grifi puoi etichettarli? Non esiste la sacralità della pellicola, fa parte dell’autoreferenzialità e dell’autorappresentazione del cinema.

Del cinema normalmente distribuito, quindi. Roberto Nanni l’anarchico contro tutti?
No, ma credo che non bisogna fare il regista nella vita, al cinema di regia io non ci credo, alla fine diventa un problema di ruolo, di potere nella società. Si può fare cinema senza arricchirsi, mentre oggi, si perde la dimensione del denaro: così molti lavorano senza guadagnare, altri vivono la follia dei cachet, degli incassi, del reference system, così lo chiamano senza conoscere la lingua inglese. Terribili. La mia la chiami anarchia? Sì, forse, ma la verità è che nel mio lavoro cerco di unire totale libertà e grande rigore. Un caos ordinato.

Fare il regista come lavoro è deleterio. Arguisco che “Centoautori” e simili non attirino il suo interesse
Non sono iscritto ad alcuna associazione. Sono anche sicuro che lì ci sono persone degnissime che cercano di lottare in un quadro terrificante come quello produttivo, espressivo e politico italiano. Però, in un certo modo, mi sembra che ci si appelli a una sinistra che ha sempre fallito, penso alla legge di Veltroni. Insomma quella dei “Guttuso”. E poi, per dirla con Groucho Marx, non accetterei mai la tessera di un club che mi volesse come socio!

Ogni film, un’opera diversa. Ma i tuoi film a mio parere più belli, Dolce vagare in sacri luoghi selvaggi e L’amore vincitore, Conversazione con Derek Jarman, sembrano molto legati
Il primo titolo è un verso di Frederich Hölderlin, da Tinian. E’ uno studio sul corpo in movimento (è una versione rivista, scorretta, deformata della sfida Alì-Frazier a Manila-ndr) e arriva un paio d’anni prima del lavoro su Jarman, con cui volevo far esplodere in frammenti il suo corpo per farli diventare un paesaggio. Non penso che si debba illustrare la realtà, ma interpretarla, più ti allontani da essa e più ti avvicini alla verità. Sono molto legati, ha ragione Boris, bravissimo, anche se nessuno l’aveva notato prima se non Rinaldo Censi. Peraltro in Dolce vagare in sacri luoghi selvaggi, film in divenire, ora c’è la musica del raro, prezioso Gabriele Panico con un brano dal titolo molto eloquente, Slaves not leaders. Lo trovano anche un lavoro molto politico, con i due neri che si picchiano e l’arbitro bianco che è lì, che compare, ritorna, e quindi giudica.

Derek Jarman parla con lei poco prima di morire. Ma il suo film sembra un sofferto inno alla vita, al presente, come tutto il suo cinema
Grazie a Steven Brown e Tuxedomoon, conobbi Derek 10 anni prima a Londra. Era il 1983 e nello stesso giorno incontrai anche W.S. Burroughs. Stava giravando Pirate Tapes, un lavoro in super8 sullo scrittore statunitense. Dieci anni dopo, ci ricordammo del nostro primo incontro. Questo film ha un tono “da bar”, colloquiale, se così vogliamo dire, diverso. M’interessava quel che pensava al di là delle convenzioni, come le sue parole sui bombardamenti in Bosnia o sul ritorno del fascismo. Lo pungolavo. Per me la vita viene sempre prima del cinema. Cosa che il cinema contemporaneo mi sembra aver dimenticato. E anche, se la sua morte s’intuiva dalle sue parole, ho voluto finire questi 30 minuti, di 3 ore complessive di girato, con lui che vorrebbe continuare a rispondere, all’infinito. E lo dichiara: uno sguardo sul futuro. Le sue parole conclusive sono: “Roberto, potrei continuare per sempre”.

Si intuisce che i tuoi maestri spaziano in tutte le arti
Ammiro tantissimo il regista Frederick Wiseman, mi ha influenzato molto la sua inquadratura lucida enetta, lui è uno che ha 80 anni e nell’ultimo anno ha fatto tre lavori. Abbiamo tenuto un breve seminario insieme su cinema e follia a Trieste nello scorso novembre. E’ un grandissimo e ha una troupe ridotta a cui è legato da un grande, forte rapporto affettivo, di cui molto cinema fa di sovente a meno, incomprensibilmente. Poi c’è Alberto Grifi. Che vergogna averlo lasciato solo e che non se ne parli neanche adesso. Dove sono i suoi dvd, perché non un centro studi? A lui dobbiamo molto- io, personalmente, ricevetti un aiuto “tecnico” importante da lui proprio per il lavoro su Jarman. Mi ricordo che vidi Anna alla Facoltà di Lettere e Filosofia occupata a Bologna, e mi segnò profondamente. Burroughs mi fulminò con la sua prosa e intuizione e Francis Bacon, beh, per me è una discreta ossessione fin da ragazzino. Credo che chiunque si occupi di cinema, dovrebbe studiare l’opera di Francis Bacon: nella sua arte c’è la modificazione, la trasformazione del movimento, del corpo e molta vita. Lui insegna che per fare arte, se così vogliamo chiamarla, non devi essere egotico, ma una carta moschicida, sapendo che come nella teoria dei quanti modifichi la realtà guardandola.

Il cinema-industria è il demonio?
Il cinema industria, Kenneth Anger in Hollywood Babilonia lo descrive benissimo. È giusto che ci sia, ma quella italiana è a senso unico. Capisco i cinepanettoni, ma ci sono film anche peggiori, come certe opere politicospettacolari, ma, ripeto, perché un genio come Grifi, e come lui tanti altri, hanno dato molto, ricevendo pochissimo? Eppure questo cinema coraggioso è l’ispirazione, il trampolino dell’altro. Ricordo una bella intervista di Fellini, unico corto circuito, forse, tra i due mondi, che raccontava di quando faceva da cicerone ad Hans Richter a Roma, o dell’influenza profonda che Jack Smith e il suo Flaming Creatures ebbe su La dolce vita.

Come fare per recuperare il nostro cinema?
Porre meno gabbie e obblighi sugli attori. Il cinema è troppo legato all’interprete e a quanto è conosciuto. Si può fare cinema anche senza attori. Non ho mai avuto un finanziamento pubblico anche perché non ho mai lavorato con i “nomi” in senso di attori. Non sono contro di loro, ma penso che non siano necessari. Credo che non siano quelli famosi gli unici possibili con cui collaborare, celebri magari non per intensità ma perché hanno fatto un film di cassetta o una pubblicità ad un gelato. E poi recuperare la memoria culturale che si sta perdendo: penso a Carmelo Bene, uno che ha fatto capolavori come Nostra Signora dei Turchi, Capricci, Don Giovanni e che ora sempre meno ricordato.