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Il Mucchio Selvaggio

ROBERTO NANNI

01/07/2009

Chi scrive ha conosciuto meglio Roberto Nanni durante i lavori del comitato scientifico del Premio Solinas per il documentario, e nella successiva giuria, non molto tempo fa. Lì ha iniziato ad apprezzare i lunghi silenzi avvolti in nuvole di fumo da sigaretta, rotti all’uopo da frasi dure come pietre, argomentazioni taglienti come schegge ostinate, uscite all’improvviso e allo scoperto da un mondo interiore in ribellione. Occhi azzurri e glaciali, lo sguardo fuori dalle orbite che si fa improvvisa dolcezza per chi ne interseca le intenzioni.

di Dario Zonta


Una descrizione dell’uomo Nanni, se volete un po’ irrituale, non per un narcisismo al contrario, ma perché il suo apparire sfuggevole (non dico il suo essere, che non può che sfuggire), e
il suo scomparire improvviso hanno a che fare con una delle sensazioni che si provano nel
vedere le sue opere, i suoi film,  che appartengono al cinema perché lo interrogano dal di dentro e dal profondo nelle forme della sperimentazione, ma sono coacervi disciolti di intuizioni
visive e logiche. Chissà se la parola “logica” piace al regista bolognese (e per pudore non glielo ho chiesto nell’intervista che segue), eppure l’alternanza sorprendente dei lavori raccolti nel dvd editato dalla Kiwido, Ostinati 85/08, che ci dà una più accurata occasione di sperimentare il suo lavoro, ha a che fare per noi anche con la logica della visione in una ricerca pervicace non tanto del senso dell’immagine (di quella immagine) ma della sua verità interiore che talvolta è insensata. Prendiamo una delle opere più note di Roberto Nanni, L’amore vincitore. Conversazione con Derek Jarman. Viene realizzato a Roma, nel 1993, in occasione della presentazione italiana dell’ultimo film del regista inglese, Blue, che accompagna una mostra di quadri. È Jarman a suggerire la conversazione, ricordandosi di un passato incontro con Roberto. Ecco, dunque, siamo innanzi a una “intervista”, una persona che parla rispondendo a domande tenute fuori campo e colte da un microfono che registra molto dell’ambiente dei rumori del fondo. Domanda e risposta, questione e soluzione, curiosità e argomentazione… un concreto piano logico su cui pian piano si scivola verso qualcosa di più profondo che ha a che fare con il suono (oltre che il senso) e con la figura. Jarman parla, ma per noi è fuori sincrono. Jarman è presente, ma per noi è una silhouette fuori fuoco. Ci sono le parole dunque, a fuoco ma spostate dall’asse labiale, e poi le immagini fuori fuoco e talvolta oblique, di “scarto” o di rimbalzo (ecco dove ho già visto “questa” immagine… mi torna in mente quella sensazione di sfuggevolezza, quella assenza-presenza di cui prima andavo dicendo cercando di  presentare la persona di Roberto Nanni. Un esserci, ma obliquo per veder le cose altrimenti e poi dirle precise e dirette). Jarman parla fuori fuoco e fuori sincrono, ma le sue parole seppur avvolte nella nube sonora del sottofondo di sala, arrivano a dirci cose concrete e precise. Che cosa cerca Nanni in questa rappresentazione obliqua di un’intervista storica? Che cosa cerca Nanni in un incontro, in un’immagine, nel cinema? Non posso rispondere io al posto suo, a una domanda che nemmeno gli ho posto, ma viene in mente un lamento celiniano in Viaggio al termine della notte, “la verità, nient’altro che la verità prima di morire”. Derek Jarman da lì a poco sarebbe morto, e quel film, Blue, sarebbe stato il suo ultimo testamento di verità in un’accurata esaltazione dell’immagine che coincide nell’assenza di immagini mentre i suoni e le parole viaggiano esautorando lo schermo della sua potenzialità. Roberto Nanni non può che eleggere il genio di questo regista a suo riferimento, proprio perché la sua arte ha sempre voluto cogliere la pura essenza, la verità intrinseca (basti pensare a Wittgenstein, filosofo, filosofia e film). Ed è lì e ora, nel presente di quell’incontro che si consuma la relazione, poi rimontata seguendo il piano sonoro (come ci dice nell’intervista). Il presente è una inaspettata parola-chiave per lui. Ma il suo cinema è presente, ma non “cronachistico”, il suo cinema davvero è più che altro una “presenza”. E si può essere presenti senza esserci. In Dolce vagare in sacri luoghi selvaggi (1989), recupera una pellicola di repertorio dell’incontro a Manila tra Mohammad Ali e Joe Frazier. Lo riproduce gonfiando i dettagli e rallentandoli. Masse muscolari in lento movimento, corpi sudati e sgranati, avvinghiati violentemente. I due pugili come fantasmi, ancora fuori fuoco, impossibili da cogliere, quasi delle assenze. Eppure - vi assicuro - nessuna immagine rende meglio la verità di quell’incontro, l’allora presenza, le loro presenze, proiettandoci là e allora come fosse ora e adesso. Si potrebbe cogliere questa specificità, come mille altre, in tutti i lavori di Nanni, da Lontano, ancora del 1985 (così vicino all’esperienza del cinema scientifico), fino a Attraverso un vetro sporco del 1999, una visione ancora una volta mediata e distanziata, la presenza notturna dell’incrocio di una città, evocata più che rappresentata.

Vorrei che mi parlassi del contesto culturale della Bologna anni 80 in cui ti sei formato, e quanto ti ha influenzato nella costituzione del tuo immaginario e della tua arte. Hai intessuto relazioni con il gruppo di Tondelli, con Pazienza, con le riviste di fumetti?

Quello che mi ha influenzato non appartiene agli anni 80, ma alla seconda metà degli anni 70. Sono nato nel 1960. Sì, ho conosciuto sia Tondelli sia Pazienza. Era piuttosto naturale. Con Pier Vittorio avevamo un amico in comune. Con Andrea invece realizzai delle pellicole per la retroproiezione. Angoli di strade, edifici, interni. Pazienza disegnava, dipingeva sugli schermi. Erano materiali per i “Frigidaire’s party”, 1982/83. Non so che fine abbiano fatto. Sì, ci conoscevamo tutti. C’era un’atmosfera molto forte, carica. Ho bellissimi ricordi ancora molto precisi, lucidi. Molta musica, letteratura, la città sembrava una sorta di ponte, era estroflessa. Non implosa come adesso.

Mi piacerebbe indagare la tua formazione musicale, sia rispetto agli artisti con cui hai lavorato,
sia rispetto a scene che hai assorbito senza frequentare (entrando anche nel dettaglio della relazione con i Tuxedomoon).

Il punk, nel 1977, non fu una sorpresa per me. Ero cresciuto a pane e Stooges. Ascoltavo MC5,
John Cale, The Academy In Peril, David Bowie, Lou Reed... per me Diamond Dogs, Berlin e Street Hassle furono fondamentali. Credo di averli ascoltati migliaia di volte. Rock e musica contemporanea. Il punk arrivò intriso di queste cose e di guerra fredda. Nel 1979 vidi in Gran Bretagna i Joy Division e negli stessi anni, il Pop Group, i Chrome, i Gang Of Four, i Throbbing Gristle, i Residents, gli Spizzoil, i Wire, John Cage, Demetrio Stratos... Sai, ho ancora quei dischi, sono molti, ma non pensare che sia un collezionista. La musica era contigua all’arte visiva o alla letteratura. Premeva in quella direzione. Mi ricordo che chiesi come regalo a mia madre Il biglietto che è esploso di Burroughs. Avevo circa quattordici anni e fresco della lettura di una lunga intervista di Lou Reed sullo scrittore. Non fu facile leggerlo, quel libro. Ero piccolo. Erano stimoli e connessioni sempre esercitate. Mi domandi di Tuxedomoon. Ci conosciamo da circa ventotto anni. Li conobbi a Bologna, per primo Winston Tong. Gli mostrai film super 8. Ero una sorta di piccolo cinema viaggiante. Valigia con proiettore super 8, bobine e un telo avvolgibile. Non c’era bisogno di nient’altro, Con lui e Nina Shaw, feci al CRT di Milano Opium, super 8mm, 1982. Nel 1983 li aiutai per Ghost Sonata, dalla foto di copertina del disco alla produzione del film di Bruce Geduldig e Winston Tong. Che dire, sono molto legato. Ho un profondo affetto e stima. Li ho visti a Roma l’anno scorso. Steven, Sergio e Bruce si sono fermati da me per qualche settimana. Mi hanno dato una mano all’edizione di Ostinati 85/08. Nel 1989 a Bruxelles, realizzai Steven Brown Reads John Keats. Nel dvd è presente una selezione di circa 25 minuti su una durata totale di circa 90’. Fu prodotto simultaneamente alla stesura del registro musicale, in una stanza contigua piena di proiettori, moviole, bagni di varechina per le pellicole. I Tuxedomoon sono stati importanti, fondamentali nel mio divenire. Con loro ho diviso esperienze vere, anche estremamente dure, ma concrete. Vediamo in futuro, forse un nuovo progetto con Steven Brown, spero, tra Italia e Messico.


Quando è nato il tuo interesse per Derek Jarman: c’entrano - anche in questo caso - gli anni 80, e come?

Conoscevo il suo lavoro, avevo visto Jubilee e Sebastiane. Quando realizzai la conversazione con lui, Derek si ricordò di un incontro avvenuto nel 1983 a Londra. Lo conobbi durante Final Academy mentre girava in super 8mm Pirate Tapes con W.S. Burroughs. Conobbi entrambi nelle stesse ore. Tuxedomoon, J.J. La Rue e Nina Shaw, mi introdussero in quella situazione. Una delle tante. Sì, hai ragione, erano i primi anni 80 ma erano ancora la naturale estensione del periodo precedente. Ne
L’amore vincitore ero interessato a svelare i motivi che indussero Jarman a realizzare quei film. La sua voce, il suono erano la guida per il montaggio della scena. È uno dei miei metodi di lavoro, montare l’immagine sul suono. Al Festival del cinema di Torino ’93, con questo film ricevemmo primo premio e premio del pubblico. Ho filmato in modo tale da cercare di far “esplodere” i fotogrammi. Dettagli gonfiati in quanto volevo che il suo corpo diventasse un paesaggio. Era una persona rara e di raro talento, estremamente disponibile e capace di leggere la realtà in modo unico.

Gli anni 80 sono anche quelli in cui arriva il video (in alcuni dei tuoi lavori di quel tempo usi il cromachi con il mixer video). In che modo quel nuovo supporto e quella nuova tecnologia potevano integrare la stagione del super 8? In che modo, dunque, hai vissuto quel passaggio epocale, e come hai recuperato il super 8?

La differenza tra pellicola e analogico e quindi digitale. Sì, in
Pexer. Il mio secondo film ufficiale. Il primo è Cipraea annulus. Non mi sono mai preoccupato molto di questo ma sono sempre stato molto interessato ai supporti. Mi piace studiarli, comprendere le loro specifiche e successivamente amplificare i loro difetti o errori. Sono alla ricerca d’intensità e non mi formalizzo sullo strumento. Francis Bacon parla di “realismo soggettivo”. Ecco, questa è la definizione. Se vuoi, i miei dubbi sul digitale risiedono nel fatto che il rapporto tra il girato e il montato è sempre molto alto. Manca di concentrazione, di scelta di un punto macchina e investono il montatore di decine di ore dalle quali deve realizzare di sovente solo pochi minuti. La pellicola ti obbliga a fare delle scelte, è molto esoso girare.

Quali sono stati - e continuano a essere - i tuoi rapporti con il cinema sperimentale italiano (Alberto Grifi e compagni)?

Credo buoni. Ho conosciuto e frequentato Alberto Grifi. Mi aiutò durante le riprese del film su Derek Jarman, fu generosissimo come sempre. È una persona che manca, di cui senti il bisogno. Mi ricordo di aver visto Anna circa trent’anni fa, nella facoltà di lettere occupata. Grifi è stato un vero maestro, la parte sana, migliore del cinema italiano. Lui non illustrava la realtà, la interpretava. Con Frederick Wiseman ho avuto un incontro pubblico pochi mesi fa a Trieste. È stato organizzato da Cosetta Saba. Quale onore. Frequento e ho molta stima di Giuseppe Baresi, Beppe Gaudino, Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Bruce Geduldig, Carlo Schirinzi...


È possibile affermare che la tua esperienza sia più vicina a quella performativa artistica che a quella prettamente cinematografica? Qual è il tuo rapporto con il mondo dell’arte e delle gallerie?

No, mi occupo di cinema. Anche se bisogna andare oltre al cinema. Non ho rapporti con gallerie d’arte, mai avuti. Studio arte figurativa da sempre, ma non frequento il mondo dell’arte.

La fruizione più “pura” del tuo lavoro sembra richiedere, appunto, un contesto forte che sia una
performance o un concerto o un evento teatrale (piuttosto che la visione cinematografica). Sei d’accordo?

Non necessariamente. Non è così per
L’amore vincitore, per Attraverso un vetro sporco o per Dolce vagare in sacri luoghi selvaggi. Sto lavorando proprio su questo negli ultimi anni.

Per l’edizione di questo pregevole dvd con libro sei tornato a rieditare le tue opere? Le consideri anche tu - come faceva Grifi con le sue - delle opere aperte, su cui tornare?

Il dvd nasce da una proposta di Federico Carra Kiwido, istigato da Antonio Rezza e Flavia Mastrella che con lui avevano realizzato
Ottimismo Democratico, una selezione dei loro incredibili cortometraggi. Abbiamo restaurato tutti i lavori. Suono e immagine. Rimontati sono tre. Federico ha avuto molta cura e attenzione nella produzione sia del dvd che del libro. Bravo. Ho aperto e modificato tre lavori. In Lontano, ancora e Dolce vagare... ho lavorato insieme a Gabriele Panico che ha composto ed eseguito le sue partiture. È un giovane compositore di musica contemporanea, la sua attività è da seguire. Con Mauro Diciocia abbiamo affrontato il secondo montaggio di questi due film e anche di Attraverso un vetro sporco. Ragazzo molto abile e “sveglio”, un filmaker. Devo ringraziare Rosella Mocci, che ha curato il montaggio di molti dei lavori presenti.